di J.G.Bennett
Estratto da: “DEEPER MAN” – Attenzione volontaria ed involontaria.
Quasi tutti sanno cosa significhi “prestare attenzione” a una cosa, e anche quanto é difficile mantenere questa attenzione se non siamo interessati o nulla ci stimola. Possiamo sì portarci in uno stato di attenzione, ma prima o poi essa si dissolve e dobbiamo riportarci nuovamente ad essa. Dobbiamo considerare l’atto del fare attenzione quale avviene quando non vi é alcuno stimolo esteriore. Questo é molto difficile, perché il mondo contemporaneo é in gran parte governato da persone che catturano l’attenzione di altre persone, vuoi nel campo dell’educazione, vuoi in quello degli affari, della politica o della religione. In tutta questa attività volta ad ottenere attenzione il soggetto é in un ruolo passivo, reagisce a qualcosa che proviene al di fuori di esso. Una tale attenzione é involontaria. Ció di cui andiamo invece alla ricerca é l’attenzione volontaria nella quale siamo noi stessi a prendere l’iniziativa. L’attenzione volontaria é indipendente dalle reazioni nel nostro strumento. Di solito I nostri occhi seguono una ragazza carina, il nostro naso é attratto da un buon odore, il nostro animo é contento di un complimento, e tutto ciò non é che stimolazione dall’esterno dell’uno o dell’altro dei nostri strumenti. Noi siamo controllati da tutto ciò che ha l’avventura di attrarci. L’attenzione involontaria é quella che si ha quando operiamo secondo la meccanica funzionale.
Nel momento in cui si porta l’attenzione su una cosa, non vi é sforzo; lo sforzo sopravviene solo quando cerchiamo di mantenere l’attenzione. Questa esperienza, che possiamo verificare da soli, dimostra che l’atto di volontá e l’azione creativa che lo accompagna sono al di fuori del tempo; ma quando l’azione rientra nella gamma di energie delle quali é costituita la nostra mente, essa viene a sottostare a condizioni temporali. Le energie piú elevate della mente sono in grado di organizzare quelle inferiori, di “prestare” loro una coerenza di cui, in sé stesse queste mancancano; ma, reciprocamente, le energie meno elevate hanno il potere di disorganizzare quelle piú elevate, e di introdurre in esse parte dell’incoerenza dei livelli piú bassi. Questa relativitá di organizzazione e disorganizzazione é ció che noi esperiamo nello sforzo di mantenere l’attenzione su una data cosa. Se per una qualsivoglia ragione vi é un’accrescimento della concentrazione delle energie piú elevate, la lotta termina e tutto diviene facile. Lavorare con l’attenzione rientra nel lavorare su sé stessi . E’ la base su cui si fondano moltissime cose. Se non riusciamo a dire la differenza tra attenzione volontaria e involontaria, viviamo in un mondo di sogni. Nel mondo contemporaneo la scienza dell’attenzione é appena conosciuta, e arrivare a una vera comprensione di essa necessita di molto tempo, visti i condizionamenti cui siamo stati sottoposti dalla cultura contemporanea.
di J.G.Bennett
Estratto da: TRANSFORMATION – “ The four sources ”.
Partiamo da una posizione d’ignoranza di noi stessi, delle nostre potenzialità, dei modi, mezzi, metodi e leggi che governano il processo di trasformazione. A questa ignoranza occorre porre rimedio. Dobbiamo cercare e dobbiamo imparare. Prima di poter imparare, dobbiamo apprendere come imparare. Dobbiamo avere il desiderio di apprendere e non aspettarci di sapere senza aver imparato. Potremmo immaginarci di non volere niente più che conoscere la verità su noi stessi ed il mondo, ma dimostriamo ancora ed ancora con il nostro comportamento che semplicemente chiudiamo la nostra mente alla conoscenza che non fa per noi. Anche se sinceramente desideriamo apprendere, non né consegue il nostro essere disposti a che ci venga insegnato. C’è una storia di un cercatore della conoscenza che chiede ad un maestro Sufi di insegnargli e riceve la risposta: “Se io sono disposto ad insegnarti, tu sei disposto a che ti venga insegnato?” Una parte dell’apprendimento deve venire da noi stessi. Dobbiamo essere disposti ad essere sinceri nell’osservazione dei nostri stati interiori ed impulsi nascosti così come il nostro comportamento esteriore. Ma anche una sincera osservazione ha bisogno di essere diretta da una conoscenza su cosa cercare e come verificare ciò che crediamo di aver visto. Come apprendiamo? L’apprendimento è un processo senza fine- a meno che non ci sia un punto finale nella Visione Beatifica in cui “conosceremo e saremo conosciuti”. Sebbene, la Visione Beatifica è solo l’inizio di una nuova vita in cui inizieremo ad imparare cose che la lingua non può proferire. Credo che l’abilità di imparare è una qualità così preziosa che non può scomparire dall’uomo perfezionato. Essere capaci di imparare è essere giovani e chiunque mantiene in sè fresca la gioia di imparare rimane per sempre giovane. Tutto ciò che in noi chiude i canali attraverso cui la nuova conoscenza può entrare rende più difficile l’evasione dalla prigione della nostra ignoranza. L’uomo ignorante è come un prigioniero che langue nella sua cella stretta, che diventerà la sua tomba, poichè non ha appreso che la porta non è serrata.
di J.G.Bennett
(Estratto da Sevenfold Work)
Seconda Linea di Lavoro
Lotta
Affermativo in Se stessi
Mediante la prima linea di lavoro possiamo fare delle scoperte su noi stessi. Possiamo verificare per noi stessi la meccanicità della nostra vita. Possiamo giungere a renderci conto che abbiamo una natura superiore ed una inferiore. Possiamo scoprire vari modi in cui inganniamo noi stessi. Possiamo conoscere la nostra debolezza. Tutto ciò non ci porta a nulla a meno che non facciamo qualcosa in proposito. Se ci accontentiamo della conoscenza di queste cose non cambieremo.
Combattere con le nostre debolezze è l’essenza del lavoro su di sè. E’ questo conflitto che fornisce l’energia che alimenterà il nostro essere. Tutto ciò che abbiamo detto circa la lotta ha sede qui. Il principio importante è “l’agonia” fra le forze affermativa e negativa in noi. Una parte dici “sì” e l’altra “no”. Il risultato è incerto, poiché non abbiamo nessuna garanzia di successo in una qualunque forma che possiamo riconoscere. Quest’incertezza è fondamentale, poiché in realtà apre la via agli aspetti più profondi dell’essere, al di là della forza relativamente superficiale che possiamo ottenere, come il controllo sull’istinto di mangiare o sulla pigrizia, esso giunge fino al centro vero e proprio del nostro sé ove, alla fine, dobbiamo affrontare la necessità di rinunciare al nostro egoismo.
Non dobbiamo dimenticare che la parte negante di noi è parte della realtà e può essere chiamata con ragione “santa negazione”, come la chiama Gurdjieff. Senza l’elemento di negazione, non può essere impostata nessuna triade e non vi può essere lavoro. Tutta l’azione deriva dalla legge del tre ed è necessaria ciascuna delle tre forze, affermativa, negante e riconciliante.
Dobbiamo anche fare attenzione a riconoscere che sebbene sia nella natura dell’uomo il trasmettere la forza affermativa, egli non ne è la fonte. Non sarebbe lontano dal vero dire che ciò che l’uomo è effettivamente è negazione. Questo è il carattere vero e proprio della condizione reale. La natura superiore dell’uomo è nel reame del potenziale, in eternità, e sta nel ruolo affermativo alla natura inferiore, che è reale, nel tempo e nello spazio.
La lotta è possibile quando siamo separati da noi stessi. Facciamo esperienza di noi stessi in una situazione in cui siamo tirati fra i “mi piace” ed i “non mi piace”, questa è la natura inferiore, ma vi è una consapevolezza di questa attrazione e questa è la porta alla natura superiore. Siamo consapevoli che in noi c’é qualcosa che ha il potenziale di essere libero dai “mi piace” e “non mi piace”. Allora ci rendiamo conto di un’opportunità: possiamo passare oltre stato di osservare semplicemente ciò che avviene al fare qualcosa a proposito di questo. Diciamo a noi stessi: “Non sarò schiavo dei “mi piace” e “non mi piace”. Affermo me stesso ad un livello più elevato rispetto a tutto questo. Desidero esistere in un modo più profondo”. E’ giusto, ci troviamo “presi” fra l’affermazione e la negazione, entrambe sono perfettamente reali e parte di noi, talvolta ciò è difficile da sopportare e vogliamo sfuggire alla tensione che comporta. Talvolta si risolve in maniera sorprendentemente facile, perché abbiamo invocato l’autorità della nostra volontà interiore o “Io” reale. Il risultato in termini di energie è lo stesso, un risultato di riconciliazione che ci consente di essere.
Madame Ouspensky, una volta in cui le fu chiesto di definire l’essere, lo descrisse come “Ciò che potete sopportare”. E’ la migliore descrizione in assoluto. Sopportare il conflitto di sì e no in noi stessi è anche il modo in cui ci è consentito di essere.
©J.G. Bennett Foundation & The Estate of J.G. Bennett 2015
di J.G.Bennett
Ogni linguaggio deve raggiungere la funzione di un dito puntato. Quando uso un simbolo o un segno per indicare qualcosa, sto facendo la stessa azione di quando punto un dito su qualcosa, ma quando lo faccio riguardo al mio mondo interiore, il processo per arrivare allo stesso risultato diventa abbastanza complesso. Posso cominciare a parlare di qualcosa che noi tutti possiamo riconoscere. L’attenzione, per esempio, è qualcosa che possiamo riconoscere. Io conosco e voi conoscete la differenza tra attenzione involontaria, quando qualcosa mi interessa, per esempio, quando i miei occhi sono catturati da qualcosa oppure un profumo mi attrae; e, attenzione volontaria, quando lotto per mantenere la mia attenzione su un oggetto. Quando parliamo di ciò, parliamo di qualcosa che tutti noi conosciamo. Posso sentire qualcuno che parla, ascolto, la mia attenzione è attratta da questo, ma l’altro stato è lo stato nel quale non lascio che la mia attenzione sia catturata. Mantengo l’attenzione in me stesso, ma la devo tenere da qualche parte, non è qualcosa che possa essere occupata col niente. Posso sedermi e lasciare che venga occupata da nient’altro che il flusso automatico di associazioni. Potrei sedere, per esempio, mantenendo il corpo quieto e immobile, in una certa posizione, e volgere la mia attenzione all’osservazione dell’incessante flusso delle mie associazioni interne. Quando vi descrivo tutto ciò, voi potete riconoscere cosa sto facendo e sedervi anche voi e fare lo stesso. O ancora, mi siedo a guardare un oggetto mantenendo lo sguardo fisso su di esso, faccio lo sforzo necessario per vederlo, che vorrebbe dire, essere consapevole che c’è e che io lo sto guardando. Provo a non permettere alla mia attenzione di venir occupata da qualcosa di diverso che la visione di questo oggetto. In particolar modo cerco di impedire che la mia attenzione venga catturata dalle associazioni, che si presentano automaticamente alla mente, o da suoni e oggetti in movimento che possano distrarla.
Quando descrivo queste due situazioni, le potete riconoscere sufficientemente bene da essere in grado di riprodurle voi stessi. Se dessi loro un nome, saremmo poi sicuramente in grado di comprenderci sufficientemente bene ogni qualvolta usiamo questi nomi. Potrei andare oltre e proporvi qualche altro esperimento che dovreste ripetere più volte per essere sicuri di averlo eseguito con successo. Questo esperimento potrebbe, per esempio, essere organizzato per permettervi di distinguere tra l’attenzione nel vostro cervello dei sentimenti ed attenzione nel vostro cervello delle sensazioni. Una volta che noi tutti abbiamo fatto questo lavoro, l’abbiamo verificato attraverso un’attenta comparazione e abbiamo discusso i risultati di ciò che abbiamo trovato, dovremmo essere in grado di usare le parole ‘sensazione’ e ‘sentimento’ in modo tale da essere abbastanza certi di stare parlando della stessa cosa.
Questo è il tipo di lavoro che deve essere fatto all’interno di noi stessi per ottenere l’equivalente del dito puntato a una caraffa d’acqua nel mondo esterno. Poco a poco potremo costruire un vocabolario che potrebbe contenere venti o trenta parole chiave e con esse potremmo parlare con sicurezza di questioni molto sottili e difficili che riguardano il nostro mondo interiore dell’uomo.
Certo è che, anche se voi ed io pensiamo di stare compiendo gli stessi sforzi, non è detto comunque che arriveremo agli stessi risultati. Ci possono essere differenze di tipo, gradi di sviluppo, sesso, età, salute fisica e di equilibrio tra le funzioni psichiche, che potrebbero influenzare i risultati dei nostri sforzi. Per tener conto di tutto questo, almeno uno di noi deve sapere abbastanza riguardo ai fattori che operano nella vita interiore dell’uomo ed essere in grado di tenerne conto nelle nostre descrizioni.
Vi dico tutto ciò per farvi comprendere che le conversazioni sui processi psichici sono incomparabilmente più complesse e soggette al sorgere di incomprensioni rispetto alle conversazioni riguardanti gli oggetti materiali della nostra vita esteriore. Può essere necessario aver fatto esperienza di qualcosa, non una ma dieci, cento, mille volte prima di essere certi che l’esatta qualità dello stato interiore è stata stabilita al di là di ogni dubbio.
Domanda: A proposito di questo punto, è dunque possibile che due persone possano ottenere esattamente gli stessi risultati, eccetto in termini di tecnica, prima che uno stato veramente più profondo venga raggiunto?
Bennett: Dipende di che cosa si sta parlando. Quando si parla dell’attenzione, non è così difficile per le persone arrivare a capirsi su ciò che fanno della loro attenzione. Mi riferisco alla divisione che fa Gurdjieff delle tre grandi funzioni psichiche dell’uomo: la funzione del pensiero o intellettuale, dei sentimenti o emozionale, delle sensazioni o funzioni istintivo-motrici. È possibile arrivare quasi senza ambiguità alla classificazione di quasi tutte le nostre esperienze nei termini di queste funzioni, perfino a suddividere ulteriormente le funzioni arrivando così ad classificazione piuttosto funzionante, ed anche a un linguaggio che le persone possono condividere e sul quale possono contare quando si parla di queste cose. Poi, sorgeranno questioni più difficili connesse a diversi livelli di consapevolezza. In generale è vero che è possibile stabilire un linguaggio comune per discutere questioni legate allo stato di consapevolezza solo se le persone hanno una certa conoscenza tecnica di come questo o quello è stato conseguito. Ma dovreste vedere che non è una cosa così straordinaria, non è ‘occulta’ (qualsiasi cosa occulta significhi) poiché infondo, non è così diversa da quello che avreste dovuto fare per diventare un chimico, cioè intendervi di chimica, o per diventare un chirurgo, intendervi di chirurgia. È solo un po’ più difficile perché, si può sezionare un corpo e osservarlo, riconoscerne gli organi, ma non si può sezionare lo stato di coscienza di un’altra persona. La cosa strana è che le persone comprendono che non possono studiare, diciamo, anatomia, senza un duro impegno e che non è il caso di parlare di questioni di anatomia senza averla prima studiata e aver visto con i propri occhi i vari organi: lo stomaco, il fegato, i nervi e così via. Ma credono di poter parlare di cose alquanto difficili come la meditazione, la contemplazione e così via, senza una dura preparazione, corrispondente a quella richiesta dallo studio dell’anatomia.
© J.G. Bennett Foundation & The Estate of J.G. Bennett 2015
15 novembre 1964
di J.G.Bennett
(Estratto)
Tutte le nostre speranze poggiano sulla possibilità di essere liberi dalle influenze che ci vincolano a questo attuale stato di esistenza. La nostra attuale condizione non corrisponde al vero destino dell’uomo, e tuttavia vi è poco che possiamo fare in merito poiché siamo stati condizionati a vedere ogni cosa “non com’è in realtà”. Questo condizionamento non è del tutto colpa nostra e non è del tutto in nostro potere l’andare oltre ad esso. Se vogliamo divenire esseri liberi dobbiamo essere preparati ad un de-condizionamento all’ingrosso. Oggi voglio richiamare la vostra attenzione soprattutto sul tipo di de-condizionamento che dobbiamo generare volontariamente in noi stessi. Il condizionamento si sviluppa abbastanza facilmente, ma il de-condizionamento è qualcosa di differente, ed il tipo di de-condizionamento di cui abbiamo bisogno non verrà da solo, semplicemente perché siamo costantemente esposti alle stesse influenze condizionanti da cui stiamo cercando di liberarci. Faccio riferimento al condizionamento che ci fa prendere per realtà solo ciò che possiamo vedere e toccare, in altre parole gli oggetti materiali con cui abbiamo a che fare. Questo condizionamento ci fa cercare, e trovare interesse nella supposta sicurezza data dal possesso materiale. Consideriamo tutto questo come se fossimo in contatto con “il mondo reale”.
[…] Quando incominciamo a vedere i limiti di questo mondo materiale ed a cercare qualcosa oltre ad esso, lo facciamo in parte con i nostri pensieri, immaginandoci vi sia un altro mondo, invisibile o spirituale, ed in parte con i nostri sentimenti. Vi può forse anche essere un qualche ricordo e talvolta persino forse un’esperienza presente immediata di un qualcosa di molto diverso, di modo che, sebbene vediamo la stessa cosa, è del tutto differente perché noi siamo differenti. E questo è ciò che descriviamo come divenire consapevoli di una realtà spirituale all’interno di una realtà materiale. Tutto ciò va molto bene, ma non rimane con noi, così che non siamo in grado di vivere la nostra vita con piena accettazione di una realtà che è al di là dei sensi, e di tutto ciò che implica questa accettazione.
[…] Molti di voi hanno indubbiamente osservato che quando si giunge al nostro lavoro, alla ricerca di una realtà in se stessi attraverso al trasformazione della propria natura, si porta in esso questo condizionamento e si pensa a questo cambiamento come a qualcosa di remoto, come a qualcosa di molto distante, qualcosa che per noi come siamo adesso non ha nessun significato. E’ molto difficile arrivare all’idea che sia vicino, che sia immediatamente presente, che sia parte della realtà di cui facciamo esperienza adesso. Pensiamo ad un mondo o a due mondi, ma quando pensiamo ad un mondo lo facciamo come se questo fosse il solo mondo reale. Ciò cui non riusciamo a pensare è un mondo in cui il visibile e l’invisibile siano veramente uno e lo stesso; non separati come la terra ed il cielo, non separati come l’esperienza di ogni giorno e l’estasi dei mistici, ma intimamente sempre collegati l’uno con l’altro.
[…] All’inizio ho detto che avrei parlato di de-condizionamento. Credo sia possibile, impegnandocisi a fondo, di cambiare il nostro modo di pensare circa queste cose. Ad esempio, ricordandoci costantemente che la realtà spirituale è qui e non in un altro posto, che la mia propria realtà spirituale, ovvero il mio vero “Io”, è qui adesso e non in un qualche altro mondo. Ed anche se impiego l’espressione “altro mondo”, questo “altro mondo” non è lontano, non appartiene alla fine del tempo, come le persone sono state abituate a pensare. Non c’è bisogno che moriamo ed andiamo da qualche altra parte per trovarlo. Poiché siamo abituati a pensare che l’altro mondo deve essere “raggiunto” da un qualche tipo di viaggio nello spazio e nel tempo, dobbiamo disabituarci. Ciò avverrà solo se ci ricordiamo spesso di questo nei modi in cui pensiamo, nei modi in cui osserviamo, nel nostro atteggiamento nei confronti di noi stessi, delle persone e delle cose, degli avvenimenti, di ogni cosa. Vi è qui, nel contatto intimo con ciò che siamo in questo momento, un mondo invisibile di cui abbiamo avuto i bagliori, e questi bagliori ci hanno mostrato quanto vicino esso sia. Ciò non significa naturalmente che i livelli più elevati di essere per l’uomo siano facilmente raggiunti, e che la trasformazione sia semplicemente una questione di cambiare atteggiamento. La trasformazione dell’uomo per renderlo un essere che sia veramente libero in relazione ai mondi invisibili, è una cosa molto grande. Non è perché la realtà è differente, ma perché è necessaria una radicale ricostruzione della nostra natura. Questa ricostruzione deve incominciare con l’accettare che è possibile.
Copyright
The Estate of JB and Elizabeth Bennett
(Estratto)
di J.G.Bennett
Visto che parlerò molto delle “possibilità” questa sera, vorrei che comprendeste che con questa parola intendo qualcosa che esiste realmente ed è presente qui e ora, anche se non possiamo né vederlo né toccarlo, neppure pensarlo o conoscerlo. Il mondo delle possibilità è reale tanto quanto il mondo dei fatti. Anzi, come vi tenterò di spiegare in seguito, è un mondo ancora più concreto del mondo dei fatti: sia perché non cambia né svanisce, come i fatti, e sia perché è molto più ricco in ciò che contiene.Esistono due mondi. Uno è il mondo dei fatti e l’altro il mondo delle possibilità. Nel mondo dei fatti, non ci sono le possibilità; nel mondo delle possibilità, non ci sono fatti. E’ molto difficile comprendere la verità che le possibilità esistono indipendentemente dai fatti e che possono anche avere potere sui fatti. La scienza, per esempio, pensa di occuparsi solo dello studio dei fatti, ma in realtà non può allontanarsi dalle possibilità. In una della più straordinarie branche della scienza nella quale sono state fatte grandi scoperte durante lo scorso secolo, cioè l’embriologia, tutto indica la presenza di un invisibile fattore che determina il modo in cui una pianta o un animale si forma dal seme. Questo è lo schema delle sue possibilità, e questo schema è sempre presente. Il suo effetto può essere studiato concretamente e con molta precisione nello sviluppo dell’embrione. È solo attraverso questo schema che dei tessuti danneggiati o addirittura interi organi possono essere rigenerati. È questo schema che mantiene ogni pianta o animale all’interno della cornice della sua specie. Se proviamo a pensare a questo schema in termini di ‘fatti’ ci perdiamo, ma ci perdiamo ugualmente se lo pensiamo come qualcosa di immateriale, una mera ‘tendenza’, oppure, come alcuni lo chiamerebbero, una forza vitale o spirituale. Lo schema delle possibilità è concreto quanto quello del corpo, ma è costituito, come ho detto la scorsa settimana, di energia potenziale invece che di energia in forma visibile. Ecco perché quando parlo di due mondi, parlo di due modi di esistenza concreti e reali, molto diversi tra loro, ma ciascuno ugualmente necessario ai fini della nostra comprensione. Tra i due c’è un confine, una frontiera, ed è aldilà di questa frontiera che può aver luogo uno scambio ed è proprio oltre questa frontiera che ‘sì’ e ‘no’ possono significare veramente qualcosa. Che cosa significa essere in presenza di possibilità? Ho detto, che posso scegliere tra girare la mia testa a destra o a sinistra, se mi è possibile fare entrambe le cose. Ma quand’è che ciò è possibile ? È possibile quando sono consapevole che qualcosa mi tira da questa parte e qualcos’altro mi tira dall’altra. Se non sono consapevole di questo, quello che accadrà non avrà nulla a che fare con me, avrà solo a che fare con il lavoro delle mie funzioni. Io sono presente nella misura in cui faccio esperienza della presenza delle possibilità.
Essere consapevoli e avere possibilità sono due cose diverse? Probabilmente risponderete “ Sì, si può essere consapevoli senza le possibilità e ci possono essere possibilità senza esserne consapevoli”. No, io vi dico che non è così. Non c’è separazione tra consapevolezza e possibilità. La consapevolezza è indistinguibile dalla presenza delle possibilità. La non consapevolezza è la stessa cosa dell’assenza di possibilità.
Quando sto dormendo non posso, eccetto in misura molto limitata, adattarmi a ciò che accade intorno a me. Le mie possibilità si riducono fino a divenire solo la mia esistenza vegetativa. Il mio corpo continua a funzionare come organismo. Questa grande riduzione delle possibilità è un cambio di consapevolezza. Non appena le possibilità si riducono, la consapevolezza si riduce con loro. Quando le possibilità si aprono nuovamente, la consapevolezza riappare. Questo è qualcosa che dovete osservare e verificare voi stessi perché, probabilmente, vi sarete abituati a usare la parola ‘consapevolezza’ nel senso di ‘sapere’ ciò che accade. Guardando con più cura vediamo che, pur sapendo ciò che sta accadendo, possiamo non esserne consapevoli. Noi facciamo tutto il tempo cose che non sarebbero possibili se non sapessimo ciò che accade e tuttavia non ne siamo consapevoli. Questa è una semplice verità che tutti noi possiamo verificare ogni volta che vogliamo, ed è ciò che dovremmo fare perché è la via per la comprensione di qualcosa di veramente importante per noi. Nel linguaggio di Gurdjieff tutto ciò sta a significare che siamo ‘addormentati’ e che viviamo la nostra vita quasi interamente nel sonno.
Copyright
The Estate of JB and Elizabeth Bennett
di J.G.BENNETT
Denison House, 16 Luglio 1951
(Estratto)
Quando ti svegli sarai consapevole del fatto che tu esisti. Se osservi te stesso, vedrai come raramente è presente in te qualcosa che corrisponde all’esperienza: “Io esisto, io sono presente qui e ora”. Potresti avere questa esperienza, ma in un primo momento sarà solo nella tua testa. Questo non è realmente essere svegli, si sta pensando di essere svegli. Tuttavia, è un inizio. Capire la differenza tra stato di sonno e stato di veglia, è una delle basi su cui si fonda tutto il lavoro su noi stessi. Questa comprensione non può avvenire in una volta. Se si desidera raggiungerla, è necessario lottare per conservare l’esperienza interiore “io esisto – qui – ora!
In un primo momento, questo è molto difficile. Per quanto si possa desiderare di ricordare, si dimenticherà quasi immediatamente. Il passo successivo è quello di capire perché non ti ricordi un fatto così semplice eppure così importante come la tua esistenza. Una ragione è che vivi sempre nelle tue associazioni. Questo è veramente uno stato di sogno. Nei sogni perdiamo il contatto con la nostra stessa esistenza. Se porti alla tua mente che stai cercando di essere sveglio, dovrai lottare ancora ed ancora per mantenerti nello stato in cui l’esperienza è presente: “Io esisto”. Se fai questo, vedrai che inizierai a ricordare più spesso, anche se probabilmente non sarai in grado di mantenerlo affatto meglio di prima. Potresti chiederti: “ Da dove proviene questo impulso che mi fa ricordare ? Di solito non ha nulla a che fare con le associazioni che sono in corso nella mia testa.” Da osservazioni di questo tipo, inizi a capire che sei solo consapevole, nella migliore delle ipotesi, di una piccola parte di te stesso. Inizierai a comprendere che cosa intende il nostro Insegnamento quando ci dice che non abbiamo uno, ma diversi cervelli. Vedrai che a volte i tuoi sentimenti, e talvolta anche la tua parte istintiva si svegliano, ma in modo assai diverso e piuttosto separato dal cervello della testa. Anch’essi possono avere l’esperienza che “io esisto”, ma ce l’hanno in un modo che e’ loro proprio. Quando sento che io esisto, non è nella mia testa, ma nel mio petto che ne ho esperienza. Quando il mio cervello istintivo comincia a svegliarsi, è attraverso le sensazioni, e sono consapevole della mia esistenza nella sensazione del mio corpo. In seguito, vedrai che per essere sveglio, nel vero senso della parola, tutti e tre i cervelli devono svegliarsi, e poi scoprirai anche come puoi rimanere sveglio. Ti renderai conto che un cervello non può mai rimanere sveglio da solo.
Nel frattempo, devi provare molto duramente a capire cosa si intende nel dire che viviamo tutto il tempo nei sogni. Tu quasi mai hai una percezione diretta di una qualsiasi cosa. Mi hai sentito dire che a malapena hai mai visto nulla, sentito nulla, toccato qualcosa. Puoi mangiare un pasto e non avere la percezione diretta di ciò che stai mangiando o che cosa significa mangiare. Puoi camminare attraverso i campi e guardare le colline e il cielo, e non avere la percezione diretta di ciò che stai vedendo. Come ti dico questo, puoi rivoltarti interiormente e dire a te stesso: “No, non è vero. Quando sono in campagna, gioisco della natura, provo tutta la sua bellezza e freschezza. “Tutto questo è opera vuota. Nulla di tutto ciò succede veramente. Sogni sulla Natura e su come è meravigliosa, ma non vedi o fai esperienza di nulla. Perché posso dire questo? Perché è il modo in cui le cose avvengono nel sonno, e so che tu sei addormentato, sia che ti siedi qui e mi ascolti, sia che vai a fare una passeggiata in campagna. Di questo non ti rendi conto. Devi osservarlo e realizzarlo in prima persona. Tutto quello che ti succede è un sogno. Perché? Perché non c’è niente in te che è in grado di non sognare. Non c’è niente in te che è in grado di essere sveglio. Questo è ciò che devi comprendere e realizzare per te stesso. Quando lo fai, tutto comincerà a cambiare, e anche il tuo futuro potrebbe essere diverso.
di J.G.BENNETT
6 giugno 1965 – Discorso domenicale a Coombe Spring
(ESTRATTO)
Dovremmo avere di fronte a noi che siamo esseri capaci di crescita, sviluppo e trasformazione, non esseri destinati a rimanere come siamo. Il significato della nostra vita non deve essere trovato in ciò che siamo adesso, ma in ciò che possiamo divenire. Le condizioni per questa crescita e sviluppo ci sono in parte fornite, ma in parte dobbiamo crearle noi stessi. Siamo forniti di nutrimento di tre tipi: la Natura ci fornisce il nutrimento per il corpo; la cultura umana ci fornisce il nutrimento psichico; e siamo forniti di nutrimento spirituale da una Fonte spirituale. Non possiamo però trarre beneficio da tutto quanto ci è fornito a meno che da noi non venga un minimo di cooperazione. Dobbiamo lavorare per pagare e per poter trarre beneficio dal cibo che ci è reso disponibile dal lavoro della Natura, e questo lavoro, in un modo o nell’altro, deve essere fatto. Se non siamo noi a farlo, qualcun altro lo deve fare per noi, e non dobbiamo dimenticare che in quel caso siamo in debito, perché qualcuno ha fatto per noi ciò che dovevamo essere noi stessi a fare.
Lo stesso vale per il nostro nutrimento psichico. Possiamo ricevere questo nutrimento in modo passivo, consentendo ad altri di influenzarci, incoraggiarci, sostenerci, ma se non diamo il nostro proprio contributo corrispondente al nutrimento che riceviamo, anche qui siamo in debito. Ciò non è meno vero per riguardo il nostro nutrimento spirituale. Questo nutrimento viene versato nel flusso della vita umana e possiamo attingervi; qui vi è però una differenza rispetto agli altri tipi, ed è che non è possibile che qualcun altro faccia il lavoro per noi, o comunque solo per un grado molto limitato. Ciò significa che le cose che ci attirano verso una realtà più elevata possono esserci date, come il nutrimento psichico, attraverso cose che ci interessano e ci eccitano, quando si arriva però al vero e proprio nutrimento spirituale dobbiamo riconoscerlo, darvi valore, prenderlo ed impiegarlo noi stessi.
Tutte e tre le forme di nutrimento sono per la nostra crescita: la crescita del nostro corpo fisico, la crescita del nostro corpo psichico; la crescita del nostro corpo spirituale. Ma questa non è tutta la storia. C’è anche la nostra volontà, ed anch’essa ha bisogno di qualcosa: ha bisogno di aiuto, che è differente dal nutrimento. Questo aiuto risiede in primo luogo nelle condizioni che rendono possibile per noi incominciare a sentire che siamo in grado di andare incontro alla chiamata e alla speranza della nostra vita. Può perciò apparire come una sfida, che talvolta trattiene il nutrimento così che siamo obbligati a darci da fare per ottenerlo. Così che talvolta questo aiuto ci appare come qualcosa contro la nostra crescita, come se ci stesse privando di qualcosa di cui abbiamo bisogno.
E’ qualcosa che non comprendiamo a meno che non ci rendiamo conto che, senza questa sfida, quest’altra parte di noi stessi, che è la parte in cui deve essere presente la nostra volontà, non può trovare se stessa.
Vi deve perciò essere una certa distinzione fra la crescita che viene dai diversi tipi di nutrimento ed il rafforzamento di quest’altra parte in noi. Questa parte si rafforza in primo luogo superando difficoltà ed in secondo luogo con il chiarimento di che cosa desideriamo veramente. Ciò che desideriamo è ciò che serviamo. Il desiderio è il magnete che ci attira verso qualcosa cui noi daremo il nostro servizio. Il nostro servizio dipende dalla nostra comprensione. La volontà dell’uomo, senza comprensione, è come un pollo senza testa. Se non comprendiamo come dirigere il nostro desiderio, il nostro desiderio di servire viene attratto verso noi stessi. Può essere servizio nei confronti del nostro amor proprio o le nostre paure, o abitudini, in tal caso è dove si trova il nostro desiderio ed è dove rimane imprigionata la nostra volontà. Può essere tanto elevato quanto noi scegliamo di farlo; ovvero, possiamo desiderare di servire l’obiettivo più elevato e più perfetto, quello che è autenticamente ed interamente Giusto. Non possiamo tuttavia ancora sapere che cosa sia, né abbiamo il potere o gli strumenti per servirlo. Perciò tutto ciò che possiamo fare è avere un’intenzione nei suoi confronti. Non è che questa intenzione non sia nulla, per quanto sia priva di successo, per quanto rimaniamo in ignoranza ed impotenti. Non dobbiamo mai sottovalutare questa nostra intenzione, è nel nostro potere renderla più forte. Dovremmo chiederci ancora ed ancora: “Che intenzione ho veramente, che cosa voglio veramente che la mia vita serva?” E quando diviene più chiaro, una trasformazione lo accompagna. Questa trasformazione è una cosa diversa dalla crescita, poiché ci trasforma da un tipo di essere ad un altro. Perciò, non è semplicemente consentirci di sviluppare i nostri poteri naturali, e neppure i nostri poteri spirituali.
La possibilità di trasformarsi non ci è offerta nel modo in cui ci è offerto il nutrimento. Compare poiché vi è una volontà più elevata. Quando abbiamo l’intenzione di servire, ci colleghiamo con Qualcosa, o con Qualcuno, oppure possiamo raffigurarlo come una Volontà o un’Intelligenza che non possiamo ancora conoscere, ma che c’è veramente e, la cosa più importante di tutte, che ha veramente bisogno di noi. E’ per questo che ci viene dato aiuto, al quale dapprima non siamo in grado di rispondere, e talvolta ci pare essere proprio l’opposto dell’aiuto. Spesso la gente mi parla di cose che sembrano loro degli ostacoli, o eventi che sembrano loro dei fallimenti, oppure di stati in cui ritengono sia successo qualcosa di sbagliato, mentre con l’esperienza è possibile rendersi conto che, in molti casi, ciò che sta avvenendo loro è che stanno ricevendo aiuto per intraprendere un qualche passo. Poiché però non possono ancora comprendere, questo aiuto genera in loro rivolta, disperazione, apatia e rifiuto. Tuttavia, queste stesse persone intendono e desiderano veramente servire; solo non comprendono che l’aiuto viene in modi che non ci aspettiamo e che non possiamo comprendere. Con più esperienza, queste situazioni o avvenimenti che ci sembrano difficoltà e fallimenti incominciano a porsi nella giusta prospettiva. Incominciamo allora a renderci conto che questi apparenti ostacoli nel cammino sono il mezzo stesso con cui questa nostra intenzione può venire alle prese con il nostro stesso bisogno di porci in relazione con qualcosa di più elevato. Questa è la seconda fase di comprendere l’aiuto. Non riconosciamo ancora la sua vera natura, ma incominciamo a renderci conto da noi stessi che ciò che precedentemente appariva come fallimento e sventura in realtà è per noi un mezzo di compiere un passo in avanti.
Questo aiuto può giungerci anche nella forma di esperienze gioiose e felici che siamo forse incapaci di accettare appieno poiché sembrano portarci via dal nostro scopo. Non ci rendiamo conto che ci sono date perché abbiamo un assaggio di quella che è la giusta relazione con qualcosa di più elevato, che è certamente una relazione gioiosa. E così, come rifiutiamo la sofferenza, il fallimento e la frustrazione, tendiamo anche a rifiutare le gioie e le soddisfazioni della vita. Anche queste possono essere una forma di aiuto poiché, come ho detto, sono un modo per avere un assaggio dello stato verso il quale dobbiamo andare.
Per alcune persone è talvolta addirittura più difficile giungere a comprendere questo tipo di aiuto, e rendersi conto di che cosa significa, che non comprendere l’altro genere di aiuto, ovvero la possibilità di fare il giusto uso di fallimenti e sofferenze. Occorre però comprendere che questa gioia, questa soddisfazione, qualunque cosa sia ciò di cui possiamo fare esperienza, è ancora solo un mezzo verso qualcosa, non deve essere preso come un obiettivo di per sé. E’ passando attraverso tali esperienze senza che ci identifichiamo in esse che possiamo giungere ad una terza comprensione. Questo è l’inizio del vero discernimento nello schema celato del Destino. Quando ci rendiamo conto di quanto regolato e nei giusti tempi sia l’aiuto che ci viene offerto, incominciamo ad avere fede nell’intelligenza che sta dietro di esso. L’aiuto che giunge in questo modo non è sempre di un tipo personale, occasionalmente ne abbiamo dei bagliori, magari in momenti di particolare difficoltà, quando giunge un aiuto che corrisponde ai nostri veri e propri bisogni del momento. Anche allora, talvolta non riconosciamo neppure che cosa ci è successo perché ci appare come fortuna o come un evento accidentale.
Sto dicendo tutto questo per ricordarvi che, nelle prime fasi, l’Aiuto può raggiungerci solo con difficoltà per via della nostra mancanza di comprensione. Siamo tagliati fuori da esso da tutti i modi sbagliati che abbiamo di pensare a quasi tutto ciò che ci succede. Successivamente, se il nostro progresso va avanti in questo modo e non siamo soddisfatti della crescita e dello sviluppo, ma vogliamo veramente servire lo scopo della nostra esistenza, incominciamo a sviluppare il potere di riconoscere l’Aiuto in un modo più fine, più rivolto all’interno, continuando a non sapere da dove viene, incominciando però a riconoscere che cos’è.
Al di là di questo vi sono, naturalmente, ulteriori fasi. Alla fine questa relazione viene vista e compresa direttamente, e l’uomo sa allora veramente a che cosa appartiene e chi è, e non vi è separazione fra lui stesso e la Fonte da cui riceve l’aiuto. Allora è in grado di servire la Fonte appieno, con tutto ciò che ha, poiché non vi è separazione.
Ciò di cui parlo adesso è della necessità di prepararci ad essere in grado di comprendere meglio questa relazione. Con le persone che sono nuove a ciò che chiamiamo il Lavoro, una delle prime cose che è utile dire loro è il potere dell’ascolto, per aiutarle a rendersi conto di quanto sia raro che udiamo ciò che viene detto da un altro. Ciò condurrà a comprendere quanto poco udiamo di ciò che viene detto dentro di noi: quanto la nostra capacità di udire noi stessi sia annebbiata dalle nostre stesse abitudini. Se praticherete l’ascolto, se praticherete semplicemente l’osservazione e l’accorgersi di che cosa avviene dentro di voi, siete già sul cammino di rendervi meglio conto di come l’aiuto giunga a noi. Quando incominciate a comprendere quanto l’inatteso, un disturbo ai nostri modi abituali di vivere, talvolta una sofferenza inattesa, talvolta una gioia ed una soddisfazione inattese, nuovi interessi e via di seguito, possano essere per noi un mezzo per comprendere diversamente e meglio a che cosa servano le nostre vite; non semplicemente qualcosa da sopportare perché doloroso, o da perseguire perché delizioso, allora intraprenderete un altro passo verso una comprensione più profonda.
di J.G.BENNETT
Estratto da Deeper man / pagg. 170 – 173
L’identificazione gioca un ruolo importante nella psicologia gurdjieffiana. Compare molte volte nei libri di Ouspensky Frammenti di un insegnamento sconosciuto e La psicologia dell’evoluzione possibile per l’uomo. E’ uno dei primi concetti che mi venne presentato quando entrai per la prima volta in contatto con questo insegnamento. L’identificazione è una falsa libertà, l’illusione della libertà, nella quale ci sentiamo liberi perché stiamo facendo ciò che vogliamo fare. Invece di trovare noi stessi, perdiamo noi stessi in ciò che stiamo facendo; e a quel punto ciò che stiamo facendo può anche essere libero, ma noi siamo in schiavitù. Possiamo anche perderci in ciò che stiamo facendo anche se non è quello che vogliamo, anche quando è una cosa riguardo alla quale non abbiamo scelta. Quando siamo in questo stato sentiamo che qualsiasi interferenza con ciò che stiamo facendo è un attentato alla nostra libertà. Se, diciamo, stiamo cucinando in cucina, diventiamo così eccitati e così identificati con quello che stiamo facendo, che se viene qualcuno e ci dice che non lo stiamo facendo nel modo giusto, ci offendiamo e sentiamo che sta interferendo. Pensiamo che la nostra libertà consista nel farlo a modo nostro, mentre qualsivoglia libertà abbiamo avuto, l’abbiamo gettata via, ed avendo la possibilità di essere liberi di fare qualsiasi cosa, abbiamo scelto di diventare schiavi. Quando siamo identificati, è esatto dire che non siamo più affatto noi stessi, perché abbiamo trasferito il nostro senso della nostra realtà a qualcosa al di fuori di noi stessi. Arriviamo a tal punto di farlo apparire una cosa positiva, l’identificarsi, lodando un uomo tutto preso dal suo lavoro, o spendendo enormi quantità di danaro per l’ultimo libro o film sensazionale, cioè in gradi di darci un’identificazione. Diveniamo schiavi di tutto ciò che facciamo, schiavizzati da tutte le persone che incontriamo, dalle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e tuttavia c’è questa terribile assurdità, che in tutto ciò pensiamo di essere liberi.
Per esempio, può avvenirci di lottare con noi stessi, di cercare di trattenere l’espressione di un qualche stato negativo, mentre dentro, ribolliamo. Poi improvvisamente ci lasciamo andare, e mentre sul piano oggettivo stiamo buttando via tutto quello che avevamo guadagnato facendo quello sforzo, ci sentiamo meglio, ci sentiamo liberi, e giustifichiamo il tutto dicendo che abbiamo voluto essere sinceri. Abbiamo permesso che questa triade negativa ci dominasse, e tuttavia ci sentiamo bene, ci sentiamo meglio, perché non sospettiamo nemmeno che tali stati negativi non hanno alcun posto in chiunque aspiri all’appellativo di uomo.
Come altro esempio, questo stato lo scopriamo molto chiaramente in noi nei riguardi di ciò che possediamo. Noi tutti abbiamo qualcosa che possediamo e a cui siamo attaccati, come si dice, o meglio con cui ci identifichiamo, e se c’è il pericolo che si perda, per noi è peggio che se perdessimo noi stessi. Mi ricordo un esempio di ciò che mi colpì molto, e che ebbe luogo molto, molto tempo fa, quando ero in uno dei gruppi di Ouspensky. Stavamo parlando delle difficoltà che incontravamo a ricordare noi stessi, e lui disse che per ricordare dovevamo avere qualcosa che ci facesse ricordare. Continuò col dire che per avere questo qualcosa dovevamo sacrificare qualcosa che ci era prezioso, allontanare da noi qualcosa cui tenevamo. Una donna gli disse che stava arrivando alla disperazione, che erano svariati mesi che cercava di fare qualcosa e non era riuscita a fare nulla. Lui le disse che doveva guardare in casa e trovare qualcosa a cui teneva e sacrificarla.
Lei sembrò molto imbarazzata per un momento, poi disse: “Be’, a dire la verità, a casa ho un bellissimo vecchio servizio da tè che ho ereditato completo da mia madre, e a cui sono attaccata”. La sua risposta fu: “Rompa una delle sue tazze di porcellana e ricorderà se stessa”.
La settimana dopo, lei venne in uno stato autenticamente isterico, dicendo: “Sono stata molto turbata da quello che ha detto riguardo alle mie tazze di porcellana. Non potrei rompere una tazza di porcellana neanche se fosse per salvare la mia anima”. La sua risposta fu semplicemente: “Vede cosa significa l’identificazione?”.
I nostri rapporti personali sono costantemente rovinati dal fatto che siamo identificati con le persone e con ciò che esse possono pensare o provare per noi. Basta che una persona faccia il minimo piccolo gesto ed il nostro mondo interno si riempie d’ogni sorta di reazioni emotive. Qualsiasi cosa può essere esagerata fino all’assurdo. Una parola di critica, e pensiamo di essere un odiato reietto. Un cenno d’assenso e crediamo d’esser riconosciuti per saggi o eminentemente importanti. In tutto questo, nessun altro ci ha fatto identificare. L’abbiamo fatto da soli.
Quando qualcosa ci scuote dallo stato di identificazione, c’è un qualcosa di molto spiacevole nel renderci conto di quanto ci eravamo persi; non possiamo sopportare di riconoscere la verità. Quando siamo identificati la nostra visione del mondo è terribilmente ristretta. Il momento presente si riduce ad un punto. Ma quando siamo totalmente identificati, completamente persi, crediamo di essere liberi al massimo, di vedere tutto ciò che è reale. Inizialmente quando incontriamo questo concetto, ci è quasi impossibile accettare davvero che noi possiamo identificarci: gli altri, si, ma non noi. Una volta che invece lo abbiamo realmente visto in noi, una volta assaggiata l’amara realtà della cosa, non ci è più possibile guardare noi stessi come facevamo prima. Non possiamo più “dormire tranquilli” come dice Gurdjieff. Ecco perché l’osservazione di sé deve essere intrapresa con la ferma volontà di non fermarsi di fronte a nessuna barriera, di non sfuggire ad alcunché si scopra e di non mancare di seguire le inferenze che inevitabilmente discendono da ciò che si è visto.
Quando lavoravo in uno dei gruppi di Ouspensky, ci incontravamo una sola volta alla settimana, ma trascorrevamo mesi ad anche anni a cercare di arrivare ad una comprensione di come queste leggi negative agivano in noi, e come, una volta capito il loro funzionamento, potevamo superarlo, come potevamo metterci sotto l’influsso di leggi superiori. In realtà non vi sono due approcci diversi per questo lavoro, uno che affronti le leggi negative e uno che affronti le leggi superiori, le leggi essenziali. Ogni volta che, attraverso la lotta con i nostri stati negativi, arriviamo al punto in cui siamo capaci di separare noi stessi da noi stessi e osservare noi stessi in modo imparziale, non solo arriviamo a capire in che modo le leggi inferiori operano in noi, ma anche, allo stesso tempo, stiamo creando in noi un posto libero dalle loro influenze, operante secondo leggi diverse. E d’altra parte, ogniqualvolta ci avviciniamo ad uno studio teorico delle leggi superiori, delle leggi dell’essenza, che non è fondato sul lavoro su noi stessi, quali che possano essere le nostre sensazioni soggettive , non stiamo sperimentando l’azione delle leggi superiori ma solo l’azione della nostra immaginazione.
Gurdjieff affermò più di una volta che questo insegnamento ha origine da una fonte consapevole. Per comprenderlo, dobbiamo essere capaci di avvicinarci ad esso in modo consapevole, di avvicinarci ad esso per mezzo e non a partire da il meccanismo del nostro sé ordinario. Possiamo affermare che l’intero tema delle leggi negative è di immensa importanza per una comprensione della psicologia del nostro possibile sviluppo, purché, naturalmente, a tutto ciò ci si avvicini nel modo giusto, cioè in termini pratici, nei termini delle nostre negatività e delle nostre meccanicità. E per quanto siamo solo noi stessi l’unico soggetto adeguato di questo studio, non è qualcosa che possa essere fatto da soli.
Copyright – J.G.Bennett e Elizabeth Bennett