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Sulla morte ed il morire

di G.I.GURDJIEFF

Estratto da “I racconti di Belzebù a suo nipote” di G.I.Gurdjieff

MR.G“Tutti gli uomini sono mortali, e ognuno di noi può morire in qualsiasi momento. Ed ora poniamoci questa domanda: l’uomo è capace d’immaginarsi realmente e, per così dire, “provare” nella propria coscienza il processo della sua morte? No! Per quanto possa averne un gran desiderio, un uomo non potrà mai rappresentarsi la propria morte e le esperienze che proverà durante quel processo. Ai giorni nostri, un uomo ordinario può al massimo immaginarsi, e in modo incompleto per giunta, la morte di un altro uomo. Ad esempio, è possibile immaginare che uscendo da un teatro un certo signor Tizio venga investito da un’automobile, restandone ucciso. Oppure che un’insegna scardinata dal vento cada sulla testa del signor Caio che passava di lì, e lo ammazzi sul colpo. O che il signor Sempronio, avvelenato da gamberetti avariati, non trovando nessuno che lo curi muoia il giorno dopo. Ognuno di noi può immaginare cose simili senza fatica. Ma un uomo ordinario è capace di applicare a se stesso le medesime possibilità immaginate per Tizio, Caio e Sempronio, e di provare davvero la terribile disperazione che gli procurerebbe una simile eventualità?

Pensate cosa accadrebbe a un uomo capace d’immaginare e percepire chiaramente l’inevitabilità della propria morte! Riflettere con serietà alla propria morte e prenderne davvero coscienza: che cosa potrebbe esserci di più terrificante? Nella vita ordinaria, oltre al fatto terribile dell’inevitabilità della morte, ci sono, specie ai giorni nostri, molte altre cose che, al solo immaginare di viverle, dovrebbero evocare in noi una sensazione di indicibile e insopportabile angoscia. Pensate ai nostri contemporanei che hanno perso per sempre qualsiasi possibilità obiettiva e reale di sperare nel futuro – cioè a chi non ha mai “seminato” niente durante la propria vita responsabile e quindi non avrà niente da “mietere” in avvenire – e supponete che un giorno costoro prendano coscienza dell’inevitabilità della propria morte imminente: al solo pensiero si impiccherebbero.

La particolare azione esercitata dalle conseguenze del famoso organo sullo psichismo degli uomini ordinari consiste precisamente nell’impedire alla maggior parte dei nostri contemporanei – questi esseri tricentrici in cui il Nostro Creatore aveva riposto tutte le sue speranze, come possibili servitori dei Suoi scopi più elevati – di conoscere in pratica simili terrori; e perciò di permettere loro un’esistenza tranquilla, vissuta nell’adempimento incosciente dei fini per cui sono stati creati, ma solo di quelli corrispondenti agli scopi più immediati della Natura perché, a causa della loro vita indegna e anormale, essi hanno perso ogni possibilità di servire a disegni più elevati. Sempre per effetto delle stesse conseguenze, non solo il loro psichismo ignora tali terrori, ma per tranquillizzarsi essi riescono persino a inventare le più svariate spiegazioni fantastiche, plausibili solo secondo la loro logica ingenua, sia su quel che percepiscono realmente sia su quello che non percepiscono affatto.

Supponete, ad esempio, che il problema della nostra incapacità di provare effettivamente questi autentici terrori potenziali, e in particolare il terrore della nostra morte, diventi “l’argomento scottante del giorno”, come a volte succede per certe questioni della vita moderna. È probabile allora che tutti i contemporanei, dai semplici mortali ai cosiddetti “esperti”, darebbero immediatamente una risposta categorica, senza mai dubitarne manco un istante, affannandosi “con la schiuma alla bocca”, come suol dirsi, di dimostrare che in realtà gli uomini si preservano dal rischio di provare simili terrori nientemeno che per la propria “volontà”. Ma se ammettiamo questo, perché mai la nostra presunta volontà non ci protegge contro tutte le piccole paure che ci assalgono a ogni piè sospinto?

Al fine di “realizzare” e comprendere quanto vi ho appena detto con tutto il vostro essere, e non solo con la “masturbazione mentale” che, per disgrazia della nostra progenie, è diventata la proprietà dominante degli uomini contemporanei, immaginate ciò che segue. Dopo questa conferenza, oggi ve ne tornate a casa, vi svestite e andate a dormire. Ma al momento di entrare nel letto, qualcosa salta fuori da sotto il guanciale, vi corre lungo il corpo e sparisce fra le lenzuola. Vi raggomitolate, respingete vivamente le coperte e vi sedete sul letto, coperti di sudore freddo. Mentre i battiti del vostro cuore invadono il silenzio della camera, fra le pieghe delle lenzuola intravedete un topino… Confessatelo francamente: vi sentite percorrere da un brivido al solo pensiero di una cosa simile. Non è così? Ed ora, vi prego, sforzatevi di fare un’eccezione e immaginate col solo aiuto del pensiero attivo, senza la minima partecipazione dell’emotività soggettiva ormai fissata in voi, che una disavventura del genere vi capiti realmente. Sarete stupefatti voi stessi all’assurdità di quella reazione. Che cosa c’è di orribile e di terrificante in un piccolo topo domestico, creatura del tutto inoffensiva? Ed ora vi chiedo: come si può spiegare quella reazione con la presunta volontà che ogni uomo si attribuisce? Come conciliare il fatto che un uomo è terrorizzato da un timido topolino e da migliaia di altre sciocchezze che potrebbero anche non succedere mai, mentre non prova alcun terrore davanti all’inevitabilità della propria morte?”

Spiegare una contraddizione tanto flagrante con l’azione della famosa “volontà” umana è comunque impossibile. Esaminiamo questa contraddizione con freddezza e senza alcun pregiudizio, cioè senza nessuna idea preconcetta e prefabbricata da sedicenti “autorità” – i cui sofismi, del resto, hanno un peso sia per l’ingenuità e per l'”istinto gregario” della gente, sia per i risultati che sorgono nel loro modo di pensare a causa dell’educazione anormale – allora diventa chiarissimo che tutte queste paure, grazie a cui l’uomo non sente il desiderio di impiccarsi, vengono consentite dalla Natura stessa perché sono indispensabili allo svolgimento della vita ordinaria. E in effetti senza di esse, senza tutte queste “punzecchiature” – obiettivamente nulla di più, anche se ne proviamo un “terrore inaudito” – non riusciremmo a provare alcun sentimento di gioia, di tristezza, di speranza, di delusione e così via; e non avremmo tutte quelle preoccupazioni, stimoli, spinte e in generale impulsi che ci costringono ad agire, a cercare di raggiungere qualcosa, a lottare per uno scopo. Nell’uomo ordinario, proprio l’insieme di quelle che si potrebbero chiamare “reazioni infantili” automatiche da una parte ne costituiscono e ne sostengono la vita, e dall’altra non gli lasciano né il tempo né la possibilità di vedere e di sentire la realtà.

Se all’uomo ordinario contemporaneo fosse dato sentire, o anche solo ricordarsi mentalmente, che a una scadenza fissa, per esempio domani o fra una settimana o un mese, o addirittura fra un anno o due, egli deve morire e morire davvero, che cosa rimarrebbe – chiediamoci – di tutto ciò che finora ha riempito e formato la sua vita? Improvvisamente per lui tutto perderebbe ogni ragion d’essere e ogni significato. A che prò l’onorificenza ricevuta ieri per i lunghi anni di servizio, che l’aveva colmato di gioia; a che prò l’occhiata così promettente della donna che sino allora aveva costituito l’oggetto del suo desiderio costante non ricambiato; a che prò il giornale col caffè del mattino, il saluto deferente del vicino sulle scale, le serate a teatro, le ore di riposo, il dolce sonno e tutte le altre cose… a che prò?

Certamente se un uomo sapesse che la morte è in arrivo, foss’anche tra cinque o dieci anni, tutto ciò non avrebbe più il significato di prima. Insomma, l’uomo ordinario non può né deve guardare “in faccia” la propria morte perché la terra gli sfuggirebbe di colpo sotto i piedi, ed egli si porrebbe in tutta la sua intensità la domanda: “A che prò questa vita, questo arrabattarsi e soffrire?”
 


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